Citati in tanti volantini evangelisti o proclamati dal pulpito, questi versetti vengono spesso usati per indirizzare i non credenti verso il vangelo della vita eterna. Tuttavia, è davvero a questo che Paolo si riferisce qui?
Contesto
Il libro dei Romani fu scritto da Paolo alla chiesa di Roma, che molto probabilmente si formò attraverso la predicazione di Pietro, come leggiamo in Atti 2. Da quel passaggio leggiamo che molti Giudei di “ogni nazione che è sotto il cielo” (v. 5), anche da Roma (v. 10), erano a Gerusalemme per una festività giudaica. Probabilmente questi ebrei tornarono a Roma con il messaggio del vangelo e vi formarono una chiesa. Tuttavia, quella chiesa era molto probabilmente composta sia da ebrei che da gentili, dato che Paolo affronta, in questa lettera, questioni dottrinali per entrambe le audience.
Presumibilmente, il capitolo che stiamo analizzando fa parte di un problema molto specifico che questa chiesa sta vivendo, e Paolo affronta questo problema nei capitoli 9, 10 e 11: un conflitto tra ebrei e gentili, forse una qualche forma di antisemitismo (Ro 14-15). Tuttavia, sostiene Paolo, Dio è fedele e manterrà le Sue promesse (Ro 8:29) sia agli Ebrei, sia ai Gentili. Dio ha infatti eletto Israele (Ro 9), poi ha rigettato Israele a causa della sua incredulità (Ro 10), ma alla fine riceverà e accetterà nuovamente Israele (Ro 11).
Ora, il capitolo 10 inizia con Paolo che dichiara quanto sia grande il suo desiderio di vedere la nazione di Israele rivolgersi finalmente a Gesù come al loro tanto atteso Messia. Ma poi, sottolinea che hanno preferito la propria giustizia a quella di Dio (vv. 3-4). Per questo motivo, non sono in grado di “invocare il nome del Signore”, a causa della loro mancanza di fede (v. 10). Le conseguenze sono l’essere fuori dalla comunione e dalla protezione (v. 10) di Dio.
Gioele 2:32
Il versetto dal libro di Gioele che Paolo cita in Romani 10:13 è importante per la comprensione di Romani 10:9-10. “Invocare il nome del Signore” è qualcosa che i credenti in generale fanno, ma qui è specifico del tempo della Tribolazione (Gioele 2:31), quando Israele riconoscerà il Messia. Essi “invocheranno il suo nome” e saranno salvati, saranno riscattati e finalmente sarà dato loro il regno terreno promesso ai loro padri.
Conclusione
Tenendo conto del contesto di Gioele 2:32 e dello scopo generale del libro di Romani, non si può dire che i versetti analizzati siano soteriologici nel loro scopo. La salvezza di cui si parla nel versetto 9 fa parte di un discorso più ampio che Paolo stava cercando di fare per suscitare accettazione e compassione per la nazione di Israele, eletta irrevocabilmente da Dio (Ro 11:28), temporaneamente fuori dalla comunione (Ro 11 :15), ma che alla fine sarà ripristinata (Ro 11:26). Infine, la salvezza menzionata nei versetti 9 e 10 presuppone anche la salvezza soteriologica, come possiamo dedurre da Romani 10:14-15.
La dottrina della certezza e sicurezza eterna è stata a lungo una pietra angolare della fede cristiana, offrendo conforto e incoraggiamento ai credenti mentre navigano nelle vicissitudini della vita. Radicata negli insegnamenti di Gesù e degli apostoli, questa dottrina delinea la natura immutabile delle promesse di Dio e la certezza della salvezza del credente in Cristo.
La certezza è il terreno su cui molte teologie si dividono e prendono posizione; Mi piace questa citazione di Ken Keathely: “Gli arminiani sanno di essere salvati ma hanno paura di non poterla mantenere, mentre i calvinisti sanno di non poter perdere la loro salvezza ma hanno paura di non averla”[i]. In tutto il Nuovo Testamento, tuttavia, la dottrina della certezza e della sicurezza eterna è accentuata come una verità inconfutabile, fondata sulla grazia di Dio, sull’opera sacrificale di Gesù Cristo e sulla potenza rigeneratrice dello Spirito Santo. Sottolineando l’origine soprannaturale della nuova nascita del credente, gli scritti apostolici fungono da fervido appello ai cristiani affinché riconoscano la loro incrollabile posizione davanti a Dio, liberi dal timore di perdere la loro salvezza.
“Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli”
(Matteo 5:3 – NR2006)
Devo confessare che quando mi sono offerta di scrivere su questo particolare attributo che troviamo nelle Beatitudini, non avevo idea di cosa significasse davvero essere “poveri in spirito”. Inizialmente, pensavo significasse “essere tristi” o magari “deboli”. Tuttavia, dopo un bel po’ di ricerca, ho trovato un articolo di Zane Hodges che mi ha aiutato a fare chiarezza.
In “Possessing the Kingdom (Matthew 5:3)”, Hodges spiega:
“Gesù ci informa che il regno sarà di coloro che sono “poveri in spirito”. Vale a dire che esso apparterrà a quei Suoi discepoli che avranno imparato la vera umiltà, e a sottomettere il proprio cuore a Dio”.
Considerando questa citazione come una definizione valida di quel che significa essere “poveri in spirito”, useremo la parola “umiltà” per il resto di questo articolo. Esamineremo che cosa vuol dire essere “poveri in spirito” tracciando la via dall’umiltà all’onore come esemplificato dalle vite di Cristo, dell’Apostolo Paolo e di Mosè. Come anche Kathryn ha sottolineato nell’introduzione a questa serie, “le qualità che il Signore desidera vedere in noi sono quelle che Egli ha dimostrato per primo”. Un bellissimo ritratto dell’umiltà del nostro Salvatore lo si può trovare in Filippesi 2:5-8 (NR2006):
“Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò sé stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.”
Un passaggio chiave che salta agli occhi si trova nel verso 7, il quale afferma che Gesù “svuotò sé stesso”. Il Re dell’universo divenne un “nessuno” (Isaia 53:3; Giovanni 1:46) al fine di rimuovere la barriera del peccato e offrirci gratuitamente la vita eterna, semplicemente per mezzo della fede in Lui (Giovanni 3:16; Efesini 2:8-9). La Sua vita in cambio della nostra. Il verso 8 sembra suggerire che fu l’umiltà di Gesù a rendere possibile quell’ubbidienza necessaria affinché un tale scambio potesse avvenire.Ad ogni modo, come si vede nei versi 9-11 del capitolo 2 di Filippesi, l’umiltà conduce, in ultimo, all’onore:
“Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre”.
Filippesi 2:9:11 (NR 2006)
In un recente studio su Ebrei, ho imparato che, probabilmente, quando Gesù ebbe compiuto la sua missione e fu asceso in Cielo, allora Egli ricevette il “nome” di cui si fa riferimento al verso 9. Il nome in questione è quello di “Figlio” ed implica una particolare connotazione biblica dal significato di “Re”. In “Hebrews: Partners with Christ”, Ken Yates spiega:
“Grazie al Suo lavoro finito, Cristo è entrato in una nuova relazione con il Padre Suo e con il Suo popolo. Nel giorno della Sua esaltazione alla destra del Padre, tutti i privilegi dell’essere re divennero Suoi. In quel momento, Egli fu dichiarato il “Figlio di Dio” in questo significato speciale.
(pag.29)
Sebbene la vita di Gesù fu contrassegnata dall’umiltà e dalla modestia, furono proprio la sottomissione e la deferenza al piano di Dio le qualità che aprirono la strada alla Sua definitiva esaltazione come Re!
La vita dell’Apostolo Paolo mostra una traiettoria simile, poiché segue l’esempio del nostro Signore. Avendo goduto dei privilegi e della fama derivanti da una vita spesa come eminente Fariseo, in Romani 1:1 Paolo si definisce un “servo di Cristo Gesù”.
Più avanti, in Filippesi 3:7-8 (NR2006), dichiara:
“Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo”.
Queste parole furono scritte da Paolo mentre si trovava in prigione. Ben lontano ormai dal potere e dall’influenza posseduti in passato, la vita dell’Apostolo era ora costantemente contrassegnata da prove ed avversità, avendo negato sé stesso per dedicarsi con tutto il cuore all’avanzamento del Vangelo. Fu imprigionato, fu lapidato, naufragò e soffrì la miseria. Eppure, in umiltà sopportò ogni cosa, sapendo che essere “nessuno” qui lo avrebbe reso un “qualcuno” lì.
Paolo abbracciò l’invito fatto da Gesù ai Suoi discepoli in Matteo 16:24-25 (NR2006):
“Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se uno vuole venire dietro a me, rinunci a sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
Paolo comprese che una vita fatta di umile sacrificio sarebbe risultata in un’eternità fatta di onore e ricompense, in quanto Gesù disse anche:
“Perché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo l’opera sua”.
Matteo 16:27 -NR2006
Un esempio di questo stesso tema nell’Antico Testamento può essere trovato nella vita di Mosè. Cresciuto nello splendore del palazzo del Faraone, Mosè rinunciò alla sua posizione di principe d’Egitto e scelse di vivere con il popolo di Dio. Ciò significò la schiavitù nelle mani degli Egiziani e ogni genere di prova nel deserto, mentre cercava di condurre un popolo indisciplinato nella terra promessa. Anche Mosè “rinunciò a tutto” con umiltà. Come Paolo, rifiutò ciò che il mondo aveva da offrire e “perse” la sua stessa vita, in cerca di qualcosa migliore.
Ebrei 11:24-26 (NR2006) spiega le sue ragioni:
“Per fede Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio che godere per breve tempo i piaceri del peccato, stimando gli oltraggi di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto, perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa”.
Tenendo a mente il loro esempio, sforziamoci di emulare l’umiltà di Cristo, di Paolo e di Mosè mentre lavoriamo per il Suo regno, sapendo che “…chiunque si abbasserà sarà innalzato”. (Matteo 23:12b – NR2006)
Attributi degni di ricompensa
Di Squadra Editoriale
il 21 Aprile 2022
in Commentari, Grazia Gratuita, Miscellanea, Nuovo Testamento, Pensieri e Riflessioni
Onore all’umile
Devo confessare che quando mi sono offerta di scrivere su questo particolare attributo che troviamo nelle Beatitudini, non avevo idea di cosa significasse davvero essere “poveri in spirito”. Inizialmente, pensavo significasse “essere tristi” o magari “deboli”. Tuttavia, dopo un bel po’ di ricerca, ho trovato un articolo di Zane Hodges che mi ha aiutato a fare chiarezza.
In “Possessing the Kingdom (Matthew 5:3)”, Hodges spiega:
Considerando questa citazione come una definizione valida di quel che significa essere “poveri in spirito”, useremo la parola “umiltà” per il resto di questo articolo. Esamineremo che cosa vuol dire essere “poveri in spirito” tracciando la via dall’umiltà all’onore come esemplificato dalle vite di Cristo, dell’Apostolo Paolo e di Mosè. Come anche Kathryn ha sottolineato nell’introduzione a questa serie, “le qualità che il Signore desidera vedere in noi sono quelle che Egli ha dimostrato per primo”. Un bellissimo ritratto dell’umiltà del nostro Salvatore lo si può trovare in Filippesi 2:5-8 (NR2006):
Un passaggio chiave che salta agli occhi si trova nel verso 7, il quale afferma che Gesù “svuotò sé stesso”. Il Re dell’universo divenne un “nessuno” (Isaia 53:3; Giovanni 1:46) al fine di rimuovere la barriera del peccato e offrirci gratuitamente la vita eterna, semplicemente per mezzo della fede in Lui (Giovanni 3:16; Efesini 2:8-9). La Sua vita in cambio della nostra. Il verso 8 sembra suggerire che fu l’umiltà di Gesù a rendere possibile quell’ubbidienza necessaria affinché un tale scambio potesse avvenire.Ad ogni modo, come si vede nei versi 9-11 del capitolo 2 di Filippesi, l’umiltà conduce, in ultimo, all’onore:
In un recente studio su Ebrei, ho imparato che, probabilmente, quando Gesù ebbe compiuto la sua missione e fu asceso in Cielo, allora Egli ricevette il “nome” di cui si fa riferimento al verso 9. Il nome in questione è quello di “Figlio” ed implica una particolare connotazione biblica dal significato di “Re”. In “Hebrews: Partners with Christ”, Ken Yates spiega:
Sebbene la vita di Gesù fu contrassegnata dall’umiltà e dalla modestia, furono proprio la sottomissione e la deferenza al piano di Dio le qualità che aprirono la strada alla Sua definitiva esaltazione come Re!
La vita dell’Apostolo Paolo mostra una traiettoria simile, poiché segue l’esempio del nostro Signore. Avendo goduto dei privilegi e della fama derivanti da una vita spesa come eminente Fariseo, in Romani 1:1 Paolo si definisce un “servo di Cristo Gesù”.
Più avanti, in Filippesi 3:7-8 (NR2006), dichiara:
Queste parole furono scritte da Paolo mentre si trovava in prigione. Ben lontano ormai dal potere e dall’influenza posseduti in passato, la vita dell’Apostolo era ora costantemente contrassegnata da prove ed avversità, avendo negato sé stesso per dedicarsi con tutto il cuore all’avanzamento del Vangelo. Fu imprigionato, fu lapidato, naufragò e soffrì la miseria. Eppure, in umiltà sopportò ogni cosa, sapendo che essere “nessuno” qui lo avrebbe reso un “qualcuno” lì.
Paolo abbracciò l’invito fatto da Gesù ai Suoi discepoli in Matteo 16:24-25 (NR2006):
Paolo comprese che una vita fatta di umile sacrificio sarebbe risultata in un’eternità fatta di onore e ricompense, in quanto Gesù disse anche:
Un esempio di questo stesso tema nell’Antico Testamento può essere trovato nella vita di Mosè. Cresciuto nello splendore del palazzo del Faraone, Mosè rinunciò alla sua posizione di principe d’Egitto e scelse di vivere con il popolo di Dio. Ciò significò la schiavitù nelle mani degli Egiziani e ogni genere di prova nel deserto, mentre cercava di condurre un popolo indisciplinato nella terra promessa. Anche Mosè “rinunciò a tutto” con umiltà. Come Paolo, rifiutò ciò che il mondo aveva da offrire e “perse” la sua stessa vita, in cerca di qualcosa migliore.
Ebrei 11:24-26 (NR2006) spiega le sue ragioni:
Tenendo a mente il loro esempio, sforziamoci di emulare l’umiltà di Cristo, di Paolo e di Mosè mentre lavoriamo per il Suo regno, sapendo che “…chiunque si abbasserà sarà innalzato”. (Matteo 23:12b – NR2006)
di Kelley Easley (original link)