Il Ritorno del Figliol Prodigo di Rembrandt, che raffigura l’abbraccio del padre al figlio ribelle. Lo stato pietoso in cui si trova figlio non vanifica il suo stato di figlio né l’amore del padre, illustrando il legame duraturo tra Dio e i Suoi figli.
Per molti lettori, la parabola del figliol prodigo evoca una drammatica scena di conversione, un non credente che tocca il fondo e infine “arriva a Gesù”. Innumerevoli appelli all’altare sono stati costruiti attorno a questa amata storia. Eppure, ironicamente, la parabola non riguarda affatto come un non credente diventi figlio di Dio; riguarda un figlio traviato, già in famiglia, che rompe la comunione e in seguito viene ristabilito. Se correttamente interpretato, il viaggio del figliol prodigo afferma con forza la dottrina della sicurezza eterna, dimostrando che una volta che si è veramente figli del Padre, tale status non è mai in pericolo.
I perduti, i ritrovati e i farisei mormoratori
La parabola del figliol prodigo è la terza di una serie di parabole. Gesù non la racconta a braccio. Luca 15 si apre con una lamentela: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (v. 2). La lamentela non proviene dagli empi, ma dall’élite religiosa, da coloro che, come il fratello maggiore che sarebbe venuto, si sentono in diritto di un favore esclusivo e si risentono di qualsiasi grazia concessa a quelli che non sono come loro.
In risposta, Gesù racconta tre parabole: la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio perduto. Ogni parabola presenta un oggetto appartenuto a qualcuno—una pecora a un pastore, una moneta a una donna, un figlio a un padre—e ognuna di esse viene persa, ritrovata e celebrata. Questo non è un capitolo sull’accoglienza di estranei in famiglia; riguarda i membri della famiglia che vengono ricollocati al loro posto.
Il pastore possiede già la pecora. La donna possiede già la moneta. Il padre ha già due figli. In nessuna di queste storie l’oggetto perduto viene acquisito per la prima volta: viene recuperato. L’enfasi non è sulla conversione, ma sulla restaurazione. Non sulla salvezza, ma sulla riconciliazione.
Sempre un figlio
Il figliol prodigo non diventa figlio quando torna. È figlio fin dall’inizio (v. 11). È figlio quando reclama l’eredità. È figlio quando la sperpera “vivendo dissolutamente”. È figlio quando pascola i porci, affamato e solo. Ed è ancora figlio quando, “rientrato in sé”, decide di tornare a casa, non per guadagnarsi un posto, ma per appellarsi alla misericordia del padre.
Il padre non rinnega mai il figlio. Non dice: “Ora sei mio figlio”. Dice: “Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24). Morto nel senso di alienazione relazionale. Perduto, non in senso eterno, ma nel senso di essere fuori posto, disorientato e lontano da casa. Lo status del figlio come figlio non cambia mai. Ciò che cambia è la sua esperienza di comunione.
Non solo una parabola, ma uno specchio e un monito
Imporre una lettura soteriologica a questa parabola porta all’assurdo. Se il figliol prodigo rappresenta un peccatore che viene salvato, allora il fratello maggiore rappresenta… cosa? Una persona salvata arrabbiata perché altri vengono salvati? Non può essere vero.
Piuttosto, Gesù inizia col mostrare uno specchio ai farisei, che si lamentano del fatto che Gesù accolga i peccatori. Ma il punto non è eguagliare i farisei rigidamente al fratello maggiore. È smascherare l’atteggiamento—orgoglioso, triste e presuntuoso—che hanno mostrato. Perché è un atteggiamento a cui i credenti stessi non sono immuni.
Orgoglio spirituale, che può colpire i credenti tanto quanto i non credenti. Con una piccola ma fondamentale differenza: l’atteggiamento impedirà a un fariseo ribelle (= non credente) di accettare Cristo, mentre il credente orgoglioso si escluderà dalla comunione con il Padre. Infatti, alla fine, è il fratello maggiore a stare fuori dalla casa, rifiutandosi di entrare.
Questa non è una parabola su come i non credenti diventano credenti. È una parabola su come i credenti vagano, su come Dio gioisce quando ritornano e su quanto sia pericoloso diventare gelosi della grazia, e quindi orgogliosi. In fondo, anche l’orgoglio è una forma di ribellione.
Il vocabolario: “perduto” e “ritrovato”
Un grosso ostacolo per molti interpreti è la parola “perduto”. Sicuramente, ragionano, se il figlio è perduto e poi ritrovato, deve essere stato “non salvo” prima di essere stato salvato. Ma questo ignora il modo in cui la Scrittura usa il linguaggio.
In Luca 15, la parola “perduto” (greco: ἀπόλλυμι, apollymi) non denota condanna. Indica semplicemente qualcosa di rovinato, sprecato o fuori posto. Gesù usa lo stesso verbo per descrivere gli otri che si rompono (Mt 9,17) e l’unguento che si “spreca” (Mc 14,4). La pecora è perduta, non morta. La moneta è perduta, non distrutta. Sono perdute quanto all’uso, non quanto al possesso.
Lo stesso vale per il figlio. È “perso” nel senso che non è più al suo posto all’interno della famiglia. È “morto” nel senso che la comunione è spezzata, ma il legame della paternità è intatto.
Essere ritrovati, quindi, non significa essere salvati dalla morte eterna. Significa essere reintegrati nel luogo a cui si appartiene.
Il ravvedimento come relazionale, non soteriologico
Il ravvedimento del figliol prodigo è reale. Egli “torna in sé” e torna con umiltà, riconoscendo il suo fallimento e la sua indegnità. Ma notate: sta per dire: “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi” (v. 19). Eppure il padre non ne vuole sapere. Lo interrompe con baci, una veste, un anello e un banchetto.
Questo non è un peccatore che cerca la salvezza. È un figlio che viene ristabilito dalla grazia.
Il ravvedimento non è una condizione per la vita eterna: è un volgere il cuore verso il Padre, che si traduce in un’intimità ristabilita. Nel Vangelo di Giovanni, il libro esplicitamente scritto “affinché crediate… e abbiate vita nel suo nome” (Giovanni 20:31), l’unica condizione per la vita eterna è la fede: la fede nel Figlio di Dio. Il ravvedimento non è nemmeno elencato come requisito per la salvezza in Giovanni. Ma in Luca, il ravvedimento è ripetutamente collegato alla gioia, alla comunione e alla restaurazione.
Un avvertimento contro l’orgoglio religioso
Abbiamo già accennato a come l’orgoglio religioso impedisca a un non credente di avere fede salvifica in Cristo. Ma non finisce qui. Un credente che coltiva questo atteggiamento interromperà la comunione con il Padre.
Vedete, il fratello maggiore non è cattivo nel senso comune del termine. È rispettoso, obbediente e apparentemente morale. Ma il suo cuore è freddo. Si risente della generosità del padre. Non riesce a chiamare il figliol prodigo “mio fratello” (v. 30). Non parla con affetto, ma in termini di merito: “Ti ho servito… non ho mai trasgredito… non mi hai mai dato un capretto”.
Ecco il vero pericolo: che noi, pur essendo rimasti puliti, potremmo sentirci superiori a coloro che sono in rovina o persino a coloro che ne sono usciti, e che potremmo dimenticare che anche noi siamo destinatari della grazia.
Il fratello maggiore non ha bisogno di essere salvato; ha bisogno di gioire. La sua tragedia non è il peccato, ma il non poter perdonare. L’appello del padre—”tutto ciò che è mio è tuo”—è un dolce promemoria che nulla gli è stato tolto. La grazia verso uno non significa meno grazia per un altro. Ma il fratello si rifiuta di entrare.
Quanti credenti vivono nel cortile esterno del risentimento, riluttanti a gioire per il ritorno di altri fratelli? Peggio ancora, quanti non sono disposti a soccorrere i propri fratelli e sorelle, per aiutarli a tornare al Padre? Anzi, li giudicano e persino dubitano della loro salvezza? Eppure, come ci ricorda Giacomo, “Chi riconduce un peccatore dall’errore della sua via lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Giacomo 5:20), ancora una volta usando “morte” nello stesso modo in cui la usa Luca.
Sicurezza eterna
Considerata correttamente, questa parabola insegna una verità potente: una volta figlio, figlio per sempre. Il viaggio del figliol prodigo non è un passaggio dall’esterno all’interno, ma dalla ribellione alla restaurazione. Non è adottato; è restituito. Il padre non esige la restituzione; celebra il ritorno. L’anello, la veste, il banchetto: questi non sono simboli di un nuovo status, ma di un’identità restaurata.
Se si potesse perdere la salvezza a causa del peccato, allora questa parabola richiederebbe al padre di rinnegare il figlio, o almeno di riammetterlo a determinate condizioni. Ma non fa né l’una né l’altra cosa. Corre da lui. Lo abbraccia. Lo celebra pubblicamente. Dichiara: “Questo mio figlio… era perduto ed è stato ritrovato”.
Così, la parabola diventa una difesa della sicurezza eterna, non come dottrina astratta, ma come realtà vissuta nel cuore di Dio. Il figlio non ha mai smesso di essere figlio. È stato sempre amato. E nel momento in cui è tornato, è stato accolto, non a malincuore, ma con gioia.
Il cuore del Padre rivelato
Interpretare erroneamente questa parabola come un trattato evangelico significa privarla del suo più profondo conforto. Non è un manuale di istruzioni per chi non è salvato, ma un balsamo per il figlio di Dio ferito. Non è un invito all’altare: è un ritorno a casa.
E forse, se si comprende veramente questa parabola, non c’è bisogno di discutere molto di più a favore della sicurezza eterna. Perché nell’abbraccio del Padre, nella veste gettata sulla vergogna, nell’anello che restituisce la dignità, nella tavola imbandita di gioia immeritata, vediamo il cuore di Dio verso i Suoi figli, anche quelli che falliscono clamorosamente.
In effetti, se comprendiamo questa parabola, comprendiamo la grazia. E se comprendiamo la grazia, comprendiamo il Vangelo. E se comprendiamo il Vangelo, non ci chiederemo mai più: “E se fallisco troppo?”
Perché la risposta sarà sempre la stessa: il Padre ci aspetta.
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