Negli ultimi giorni ci siamo trovati di fronte a una decisione: come reagire quando la scuola propone iniziative che, pur vestite del linguaggio della pace e della convivenza civile, presentano contenuti, metodi e simboli difficilmente conciliabili con una visione cristiana del mondo?
La circostanza, nel nostro caso, è stata la Marcia della Pace organizzata dalla scuola dei nostri figli. Una manifestazione pubblica, con cartelloni, canti e la partecipazione di figure politiche e istituzionali.
L’iniziativa, nelle sue intenzioni, vuole promuovere valori condivisibili da tutti. Tuttavia, osservandola con attenzione, rivela almeno tre criticità che credo sia necessario discutere apertamente, non per spirito polemico, ma per responsabilità educativa.
La prima responsabilità resta alla famiglia
La Scrittura e la stessa Costituzione italiana ricordano che la responsabilità educativa primaria appartiene alla famiglia. È alla famiglia, prima ancora che alla scuola o allo Stato, che Dio affida il compito di formare la coscienza morale dei figli.
Per noi cristiani, educare alla pace significa mostrare che la pace non è un semplice sentimento, né un ideale vago di armonia universale, ma un frutto di verità, giustizia e riconciliazione con Dio tramite fede in Gesù Cristo. È una realtà che nasce dall’opera del Figlio di Dio, non da una manifestazione ben organizzata.
La scuola può certamente contribuire alla formazione civica, ma non può assumere un ruolo che sostituisca il discernimento etico, spirituale e teologico che la famiglia coltiva nella vita quotidiana. Quando iniziative pubbliche vengono proposte come strumenti educativi per tutti gli alunni, il rischio è che si crei una tensione innaturale fra ciò che i bambini imparano in casa e ciò che viene presentato come “valore condiviso”.
Quando il metodo diventa messaggio
La seconda critica riguarda non tanto ciò che si vuole insegnare, ma come lo si vuole insegnare. Il ricorso a una marcia pubblica come strumento formativo riflette un modello pedagogico molto più ideologico di quanto sembri.
Una certa tradizione di sinistra, soprattutto negli ultimi decenni, ha spesso privilegiato la piazza al pensiero critico. Ha preferito il gesto collettivo alla riflessione profonda, lo slogan al dialogo, l’emozione condivisa alla vera comprensione. La marcia diventa così un rito sociale: si cammina insieme, si canta, si mostra un cartellone; si partecipa a una coreografia che dà la sensazione di “stare dalla parte giusta”, ma senza necessariamente affrontare la complessità del tema.
Il problema non è la buona intenzione, ma l’uso di un metodo che educa più all’allineamento emotivo che al discernimento. L’attivismo sostituisce il pensiero, la partecipazione sostituisce la comprensione, la spettacolarità sostituisce la verità.
E i bambini? Sono trascinati in un gesto simbolico di cui non conoscono né i presupposti né le implicazioni. Non discutono, non imparano la storia, non interrogano le fonti. Semplicemente partecipano. Ma partecipare non significa capire.
Imagine: un inno ambiguo a una pace senza Dio
Nell’attività preparatoria alla marcia, ai bambini è stato chiesto di imparare la canzone Imagine di John Lennon. È stata proposta come “inno alla pace”. È innegabile che il brano abbia una forza emotiva e un valore storico. Ma, teologicamente, il suo messaggio è difficilmente compatibile con una visione cristiana della pace.
E questo l’hanno notato subito anche i nostri bimbi, appena hanno letto il primo verso della canzone, “Imagine there’s no heaven”, grazie a Dio obiettando, fermi nella loro fede in Gesù.
Nel testo allegato alla scuola (che riassumo qui) emerge come Imagine presenti un ideale di pace che nasce dall’eliminazione di Dio, del cielo, della speranza eterna, delle radici morali, delle identità dei popoli. È una pace ottenuta sottraendo al mondo tutto ciò che la Scrittura definisce essenziale per la dignità umana e per la vera riconciliazione.
La pace biblica, come ricorda Paolo, nasce invece dalla giustificazione per fede: “Giustificati per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo” (Romani 5:1). Senza Dio, ciò che rimane è un’utopia fragile, che si fonda più sul desiderio umano che sulla verità.
Presentare questa visione ai bambini come “modello universale” rischia di confondere i valori della fede con un umanismo che nega apertamente la trascendenza. È un rischio che i genitori cristiani non possono ignorare.
Il nostro compito: rimanere saldi e fedeli
Questi episodi mostrano quanto sia urgente, oggi, che le famiglie cristiane vivano con lucidità e fermezza la propria vocazione educativa. Viviamo in una cultura che tende a trasformare ogni valore in slogan, ogni virtù in gesto, ogni principio in immagine. La scuola, spesso senza malizia, ne assorbe i metodi: marce, canti, cartelloni, parole chiave, semplificazioni emotive.
Ma la pace di Cristo non cresce così. Non nasce in piazza, ma nel cuore rigenerato. Non si fonda sul consenso collettivo, ma sulla verità rivelata. Non è un’emozione, ma un dono che Dio fa all’uomo quando lo riconcilia con sé.
Per questo, quando necessario, occorre dire un semplice e tranquillo “no”. Non per ribellione, non per spirito di contraddizione, ma per proteggere i figli da ciò che sembra buono, ma manca della sostanza della verità.
E perché no, cogliamo anche l’occasione per predicare il vangelo. Questa è stata la nostra scelta, quando abbiamo scritto alla dirigente scolastica, ricordandole che “Noi cresciamo i nostri figli nella consapevolezza che la pace non è soltanto assenza di guerra, ma frutto di giustizia, di verità e soprattutto di riconciliazione eterna con Dio tramite fede in Gesù quale Figlio di Dio e Cristo.”
In un tempo in cui tutto fluttua, la famiglia cristiana rimane un luogo stabile. Un luogo dove la pace non è un canto da imparare, ma una realtà da vivere, sorretti dalla certezza che Cristo “è la nostra pace” (Efesini 2:14).
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